martedì 18 giugno 2013

Speech. Dal primo all'ultimo servizio.


Alla fine conti anche le parole nuove che hai imparato. E fai i conti con un piccolo cassetto riaperto che ha buttato fuori nuvole di polvere e si è riempito di gente e linfa nuova. Un breve periodo,  una costruzione di  intenti e brividi sulle unghie. Passare molte ore forse sotto stress, a volte con il timore di non rispettare i tempi , di non essere all’altezza ma passarle con l’animo contento proprio per come le stai passando è una sensazione che riempie. Manca; ascolti il tg con un orecchio diverso e hai la smania di provarci davvero. Ma ora non importa. Non  ti sei portato solo la mancanza perché sei pieno del ricevuto.

Pezzi da scrivere, notizie da cercare, da rimettere insieme secondo i crismi, errori da non fare e sorrisi da condividere. La prima volta che in cabina di registrazione ti metti le cuffie, guardi il “collega” senior a cui, ahilui, sei stato affidato, con sguardo tenero e un po’ vergognoso quasi a scusarti perché sei sicuro che quello che ti sta dicendo non lo saprai fare. E capisci una buona norma o meglio te la riporti alla mente. Imparare è una cosa meravigliosa. Ex novo, ci si può riuscire. Anche chi è bravo  ha avuto la sua prima volta. Poi inizi a “speakerare”, il cuore in gola come se dalle tue parole dipendesse l’esecuzione di qualcuno. Questo al primo colpo, dicesi che porti a una gamma di risultati differenti che oscillano tra: 35 secondi di speech in apnea dove consonanti mangiate si trovano attaccate tra loro e finisci per ascoltare una voce ansimante come quel tipo con i baffi che vendeva cose in tv. Oppure, stessa quantità di caratteri, 1 minuto e quaranta.Una voce dall’oltretomba che per paura di sbagliare la dizione scandisce sillabe come quando si parla a uno straniero per farsi comprendere. Non saprai bene a quale categoria di novello appartieni sino a che non entrerai in regia per la prima volta: quasi come stare al patibolo. Soprattutto perché chi è là dentro magari un regista giornalista con anni di esperienza, divertente e finto burbero, commenta i risultati senza sapere che il giocatore appena arrivato è alle sue spalle.

Se sei già a questo punto, hai scritto qualcosa che può essere stato più o meno ribaltato, hai almeno salito e sceso le scale 20 volte, hai cercato invano un pc su cui lavorare, hai provato a ricordare i nomi di chi sta rispondendo alle tue domande da un paio di giorni, non hai pranzato ma hai preso dei caffè condivisi.
E se sei già qui è l’ora di tirare fuori quel quadernone anni ‘80 che ti sei comprato perché -le cose te le devi scrivere se no mica te le ricordi-,come ti hanno detto. Ci sei, devi montare quello che hai scritto e quello che hai “parlato”. E non puoi starci delle ore perché il tuo posto serve ad altri che nello stesso tuo tempo magari fanno il triplo del lavoro che fai tu. Questo aumenta di gran lunga l’ansia da prestazione. Ed è lì che scoprirai l’aiuto. Chi ti aiuta con flemma, gentilezza ed esperienza, chi lo fa con velocità e concretezza perché sa che  solo così potrà avere il tuo posto, chi lo fa perché la passione non lo ferma e ha bisogno di fare e creare. Tanti modi o scopi ma l’aiuto arriva sempre. Questo è quello che ti permetterà di imparare a fare tutto o quasi da solo, in poco tempo. Non sfornerai servizi da Pulitzer ma almeno sarai in grado di non distruggere un tg o mandare in onda due minuti di nero.

Così ci prendi pure gusto. E passate le prime fasi dove ti sembra di camminare in una frenesia continua inizi anche a conoscere chi ci cammina con te. Colleghi i nomi alle facce, poi i cognomi ai nomi, poi sul foglio dei turni visualizzi i visi sopra ai cognomi e cominci a capire come gira la redazione. Iniziano le parole e anche le risate. E in poco tempo arrivano i “nuovi” e in men che non si dica non sei più tu il “nuovo” e hai pure un soprannome, l’ennesimo e questo ti piace.

Quando il tempo di una nuova avventura è breve, succede spesso che la distanza tra l’appena arrivato e sono quasi alla fine coincidano. Se sai che dura poco, già a metà ti sembra di partire. E invece sei a metà. Ma siccome hai visto come è andata via veloce la prima parte senti che la seconda sia già arrivata alla fine. E’ la conoscenza dei ritmi che porta a questo. Come andare in un posto: le 10 ore per arrivare non hanno mai lo stesso valore del tempo del ritorno. E’ una sensazione emozionante a volte, hai nostalgia di una cosa quando ce l’hai ancora.

Poi se sei fortunato tutto questo esce con te al di fuori di quel tornello. E grazie a qualcuno conosci le storie degli altri ci ridi sopra mentre mangi una pizza, c’è chi perde sangue dal naso, chi porta bottiglie di sambuca per pensare ridendo alla buffa giornata trascorsa, chi ti accoglie in casa sua come se ti conoscesse da anni e chi rimarrà impresso in foto strampalate, nelle frasi di un piccolo blocchettino, nella dedica di una copia del giornale e tutti negli occhi e nelle mani.
Insieme a questo poi, ci attacchi tante strade nuove, cari veri amici rincontrati, mostre di foto e quadri, la tua voce nella metro, giri stravaganti con la tua metà in visita, l’odore della pioggia dopo il sole sull’asfalto.

Un mash-up come fa figo dire in questi tempi: un po’ studente fuori sede, un po’ lavoratore, un po’ giornalista, un po’ scout, un po’ viaggiatore, un po’ erasmus e un po’ stagista, un po’ solitario e un po’ vecchio amico, un po’ tonino va in città, un po’ avventuriero metropolitato. Come un pezzo di puzzle incastrato ma comodo in una vita scombinata.
E ti senti grato. Per questa prova, per chi te l’ha proposta e per come ti è capitata tra le mani, grato per una persona amica che con la sua accoglienza ti ha permesso di viverla, per una città che ti ha ospitato e che non è solo grigio e madunnina e per chi l’ha trascorsa con te.

Le nuove occasioni, anche se piccole, sono questo, le persone sono questo: pezzi di puzzle. A volte sembra che tutto sia scollegato e qualche pezzo sia andato perduto o sciupato tanto da non rientrare al suo posto. E poi basta poco un po’ di curiosità e voglia di provarci ed ogni pezzo acquista di nuovo senso e la scatola del tuo puzzle cresce da sola, ancora.  Speri di aver lasciato almeno qualcosa in cambio del tanto portato via con te. Così da ripartire pieno ma leggero per un’altra strada.

Io a Milano maggio/giugno 2013.

Con gli occhi di chi abita le cose.

Tanti mattoncini rossi di cultura, piazze grandi e piccole,
un’università antica tra cortili, piante e personaggi illustri che l’hanno popolata.
Strade ricche di sapore fatte di tanti sassi scomposti con ordine, di cui non ricordo il nome, richiami a San Siro e a Sant’Agostino tra chiese imponenti e calde e altre sconsacrate.
Tra il giallo di Vienna, edifici ricostruiti dopo tante lotte di conquista
e bombe di liberazione.
Eco di canzoni conosciute e di leggende affascinanti davanti a un vecchio carcere, dove alcuni hanno fatto la tre giorni e altri tutto il militare.
La capitale.
Macchine da cucire, la colomba e la zuppa mentre si scopre il borgo, luogo che divideva in classi le genti e dove brave lavandaie lavoravano per chi viveva al di là del ponte.
E altro, molto altro.
Tanta storia e tanto sapere nell’accoglienza di un Cicerone appassionato, gentile e preparato.
Ecco la mia Pavia.
Grazie Fabio.

Diversamente occupati.

12maggio2013

Spesso si dice che l’acqua sia senza colore, si usa come esempio per rappresentare il trasparente.

E’ un concetto curioso. Povero il tal “trasparente” rilegato in un angolo come se fosse una creatura senza identità, perché non classificato nello spettro dei colori.
Invece è ammirevole. Perché è anche quando non c’è.
Ed è molto di più perché è trasformabile, adattabile, cangiante e assorbente.
Come l’acqua che diventa grigia sfumatosa quando è calda, torbida e arancione quando non scorre da tempo, verde melmosa quando incontra le alghe e ancora e ancora.
Ma ormai troppo spesso siamo abituati a facili categorie che ci rendono le soluzioni più evidenti.
E’ un’idea interpretabile e accostabile a più schematizzazioni che siamo soliti recepire per rinchiudere
in caselle le condizioni umane, sociali.
Come sia effimero definire una persona, disoccupata o al lavoro.(A parte che purtroppo troppo persone al lavoro magari non sono produttive ma questa è un’altra parentesi).
Ecco, non tutte le persone disoccupate sono trasparenti. Magari sono torbide perché hanno incontrato lo scoramento di non sapere come mantenere una famiglia. Magari sono arancioni perché hanno incontrato la rabbia di non sapere più come recuperare la dignità. Ma sono molto altro, fanno altro, vivono altro.
E magari, sono acque giovani, in ebollizione, che scorrono da una parte all’altra.
Non sono bozzi vitrei in una bacinella in attesa. Sono in fermento e sono grigie e vaporose, calde per la smania di riempire vasche nuove e diverse. Acque che si buttano in tanti ruscelli con entusiasmo, umiltà e voglia di fare anche se sanno che forse non arriveranno al mare.
Ne conosco tante di acque così. Non sono trasparenti, sono colorate di tutto ciò che le attraversa.
A volte è faticoso non cedere alle paludi ma per scacciare le sabbie mobili è meglio non fermarsi e
comunque vada , scorrere.
Anche io da domani apro ancora una volta un altro rubinetto e vado ad assorbire nuovi colori.
Mi sento fresca e agitata come l’acqua di montagna.